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Il Comune di Roma (1143-1398) è stato un regime politico cittadino semiautonomo, instaurato nella città di Roma, la cui comparsa può essere ricondotta all'interno del processo di costituzione dei comuni urbani nel Nord Italia (secoli XI-XII). Come entità politico-amministrativa, il Comune di Roma, con sede in Campidoglio, era costituito da organi di governo e rappresentanza - l'Arengum o Parlamentum, il Senato e il Consiglio -, di giustizia e di gestione delle finanze, la cui giurisdizione si estendeva presumibilmente dal ponte sul Paglia presso Radicofani al ponte sul Liri presso Ceprano e da Carsoli fino alla costa tirrenica.[1] Nei suoi 255 anni di esistenza, il Comune di Roma costituì per il Papato tanto una limitazione dei propri poteri, dato che i confini dei domini papali nel Lazio coincidevano con i limiti giurisdizionali delle istituzioni comunali, quanto un efficace alleato nelle sue lotte contro il Sacro Romano Impero.

Storia[modifica | modifica wikitesto]

Seguendo con la suddivisione cronologica proposta da Yves Renouard per i comuni medievali italiani,[2] il Comune di Roma attraversò diverse fasi di sviluppo che meritano di essere analizzate singolarmente.

Fase di formazione (1143-1188)[modifica | modifica wikitesto]

Ricerca di autonomia e la renovatio Senatus (1143)[modifica | modifica wikitesto]

Dopo un conflitto durato due anni (1141-1143), la cittadina di Tivoli si sottomise finalmente all'autorità di papa Innocenzo II (1130-1143), quest'ultimo tuttavia proibì ai romani di demolire le mura della città tiburtina o di intraprendere qualsiasi tipo di rappresaglia contro i suoi abitanti. A causa di questa decisione, tra l'agosto e l'ottobre del 1143, i cittadini romani, su istigazione del predicatore riformista Arnaldo di Brescia, si ribellarono contro il pontefice e crearono una propria assemblea sul modello dell'antico Senato romano, con sede in Campidoglio.[3] Benché questo episodio, conosciuto come renovatio Senatus, sia tradizionalmente considerato l'atto di fondazione del Comune di Roma, la nascita dell'istituzione comunale può essere considerata come il compimento di un processo iniziato già nel corso dell'XI secolo. È infatti in questo secolo che si assiste ai primi esempi di ricerca di autonomia del popolo romano rispetto all'autorità papale, come la presenza rilevante di laici potenti nei tribunali pubblici, la comparsa di corti di giustizia specializzate nella risoluzione di dispute professionali, la concessione di un importante privilegio commerciale all'abbazia di Montecassino nel 1127 da parte di sei cittadini romani in rappresentanza della città e, soprattutto, la costituzione di una milizia armata composta da membri delle famiglie nobili libera di agire in maniera indipendente dall'autorità pontificia.[4] La nobiltà cittadina riunita in armi contro Tivoli rappresenta un elemento chiave per comprendere l'evoluzione del Comune di Roma, dato che l'appoggio dei capi della milizia fu strumentale in occasione rivolta del 1143.

Conquista dell'autonomia (1143-1188)[modifica | modifica wikitesto]

Dalla sua fondazione fino 1188, il Comune di Roma godette di una autonomia quasi completa dal papato, arrivando a contendergli il dominio di varie altri centri del Lazio (Tivoli, Albano Laziale, Tuscolo), sulla spinta di una politica di espansione comunale, nonché il controllo della produzione agricola tra Viterbo e il mar Tirreno, l'imposizione di tasse, l'amministrazione della giustizia nei territori di Sabina, Tuscia e Campagna e Marittima e persino la facoltà di consacrare gli imperatori, anche senza tener conto della decisione finale dei principi tedeschi.[5]

Fase di consolidamento (1188-1252)[modifica | modifica wikitesto]

Riconoscimento papale del Comune[modifica | modifica wikitesto]

Nel 1188 il Comune di Roma raggiunse un accordo con papa Clemente III (1187-1191) in virtù del quale restituiva al pontefice alcune dei privilegi perduti dal 1143 (come il diritto di battere monete o quello di riscuotere i canoni) e si impegnava inoltre a rispettare cardinali, ecclesiastici e visitatori stranieri, a restituire le rendite e le proprietà delle chiese saccheggiate negli anni precedenti, a prestare servizio militare per il pontefice e a giurargli fedeltà quale signore della città. Il Comune, in cambio, otteneva dal papato non solo il riconoscimento ufficiale della sua esistenza e delle sue aspirazioni territoriali su Tuscolo, ma anche risarcimenti, donazioni e contributi economici.[6]

Elezione del senatore unico e comparsa del medianus[modifica | modifica wikitesto]

Nel 1191, a seguito di una sommossa popolare che rivendicava l'autonomia comunale rispetto al papato,[7] il Comune di Roma vide modificato il proprio sistema di governo, fino ad allora identificabile col Senato, tramite l'elezione del senatore unico, una magistratura senatoria di nomina collegiale, controllata da rappresentanti di ognuna delle fazioni aristocratiche contrapposte, che potrebbe essere paragonata, per alcuni aspetti, a quella di console e/o podestà nel resto dei comuni italiani. Da quel momento in poi, il Senato fu trasformato in un consiglio subordinato, che si sarebbe poi scisso in un consiglio generale, composto dai caporioni e dai consoli delle arti di Roma, e un consiglio speciale, di composizione più ristretta. [8] Allo stesso modo, i vari servizi che inizialmente dipendevano dall'autorità del Senato iniziarono a gestirsi e organizzarsi in maniera autonoma.

In maniera eccezionale, tra 1198 e 1205 papa Innocenzo III (1198-1216) si arrogò il diritto di nominare un medianus, figura il cui compito era l'elezione di un senatore, proveniente dalle maggiori famiglie guelfe o ghibelline della città, che doveva fedeltà solo al pontefice. Tale ingerenza avrebbe contribuito in più di una occasione al sollevamento delle famiglie nobili dell'una e dell'altra parte, a seconda di quale fazione fosse al comando nel Comune in quel momento, rendendo palese la profonda spaccatura che separava i due partiti opposti e l'instabilità dell'ambiente politico romano.

Il Comune al tempo di Federico II[modifica | modifica wikitesto]

Sotto il regno dell'imperatore Federico II Hohenstaufen (1220-1250), il Comune, guidato dal senatore ghibellino Giovanni di Poli, partecipò attivamente al rinnovato conflitto tra Papato e Impero, sulla base dei propri interessi politici e territoriali.[9] L'ambizione di Giovanni di controllare manu militari Viterbo, i castelli di Vitorchiano e Montefortino (oggi Artena), la sua intenzione di scaricare sul clero i costi della guerra e la sua netta preferenza per l'imperatore tedesco rispetto a Gregorio IX (1227-1241) valsero la scomunica a lui e a tutti i membri del governo comunale, fino alla firma del patto di tregua che mise Viterbo sotto comune dominio con il pontefice.[10]

La rivolta del 1234 in difesa dell'autonomia comunale[modifica | modifica wikitesto]

Sebbene lo storico Paolo Brezzi dipinga un quadro accurato della rivolta romana del 1234, tuttora si ignorano gli eventi che la causarono; è tuttavia noto che fu capeggiata dal senatore Luca Savelli, dai suoi collaboratori Pietro Parenzo e Giovanni Cenci e dalle classi dei commercianti in risposta alle cattive relazioni che intercorrevano tra il Comune e Gregorio IX. Tra le rivendicazioni del popolo grasso c'era l'estensione della giurisdizione comunale ad Anagni, Segni, Velletri, Viterbo e Montalto a detrimento del papato e l'annullamento della pace del 1188 col fine di riavere per sé varie attribuzioni come la libera elezione del Senato, la coniazione e il diritto ad incassare la riscossione delle gabelle.[11] Quando Gregorio IX sollecitò un intervento militare contro i romani, Federico II accorse in aiuto del papa e insieme hanno sconfissero definitivamente le truppe comunali che occupavano Viterbo.[12]

gli effetti della rivolta del 1234 furono cancellati tramite la restituzione al papato di tutte le conquiste territoriali fatte dal Comune, la liberazione dei prigionieri, il pagamento di un indennizzo per il saccheggio di San Giovanni in Laterano e delle case di i cardinali, il riconoscimento dei privilegi della giurisdizione ecclesiastica e dell'immunità fiscale delle chiese romane e la promessa di non arrecare disturbo ai pellegrini o al clero e di mantenere la pace con l'imperatore e con le città di Campagna e Marittima, Sabina e Tuscia. Tuttavia, nonostante i considerevoli obblighi richiesti dal papa, egli da parte sua rinunciava al diritto di eleggere liberamente i senatori della corporazione, al diritto di battere moneta e all'incasso delle gabelle. Tramite questo atto l'autorità pontificia ristabilì e implicitamente riconobbe le attribuzioni per le quali il Comune era insorto contro il suo signore.[13]

L'alleanza tra Comune e papato contro Federico II[modifica | modifica wikitesto]

Dopo un'alternanza di guelfi e ghibellini al potere comunale (1237-1241), il Comune di Roma, guidato dal senatore guelfo e cardinale Matteo Rosso Orsini, dovette allearsi nel 1242-1243 con le città di Perugia, Narni, Alatri, Acuto e Viterbo contro Federico II, [14] che si apprestava in quel momento ad invadere i territori del Patrimonio di San Pietro per forzare l'elezione di un pontefice in grado di porre fine al conflitto tra papa e imperatore; cosa che sarebbe successa nel 1244 dopo l'elezione di Innocenzo IV (1243-1254).[15] Così, come premio per la sua fedeltà e assistenza durante la guerra, il papa riconobbe i diritti del Comune su Vico, invitandoli a riconquistare quella piazza, e ricompensò un certo numero di illustri romani tramite delle commissioni, attingendo dai fondi ecclesiastici.

Morto Federico II nel 1250, i buoni rapporti tra Comune e papato avrebbe presto ceduto il passo alla diffidenza delle istituzioni comunali verso il pontefice, spesso assente da Roma, e verso le famiglie nobili, in constante lotta fra loro.

Fase popolare (1252-1347)[modifica | modifica wikitesto]

Tra il 1252 e il 1347 Roma attraversò almeno una dozzina di mutamenti politici, dovuti soprattutto a moti popolari di varia intensità che interruppero per brevi periodi il dominio dei baroni (termine con cui venivano indicate le famiglie nobili romane), affidando il potere a collegi di magistrati dalle funzioni ignote - boni viri reformatores rei publicae (1256), boni homines (1266, 1312, 1327, 1342), anziani (1305), priori (1338)[16] - o condividendolo con podestà o principi stranieri. Quest'ultima tendenza non era dissimile da quella del resto delle città italiane, in cui l'affidamento di parte del potere nelle mani di podestà forestieri o principi stranieri (solitamente in maniera simbolica, in quest'ultimo caso) aveva la funzione di agevolare l'attuazione di riforme favorevoli alla nobiltà cittadina e ai capi delle corporazioni delle arti e mestieri. Nel caso romano però l'elezione di stranieri alle cariche pubbliche fu una novità assoluta, poiché l'origine degli ufficiali comunali fino al 1252 era sempre stata locale. Tuttavia, dall'elezione a podestà di Brancaleone degli Andalò (in carica dal 1252 al 1259) in poi, il comune romano conobbe una serie di mandati personalistici che monopolizzarono le istituzioni, come quelli di Carlo I d'Angiò (1263-1266, 1268-1278, 1281-1284) e Roberto I d'Angiò (1313-1326, 1328-1336).

Brancaleone degli Andalò, senatore e capitano del popolo (1252-1259)[modifica | modifica wikitesto]

La prolungata assenza di papa Innocenzo IV (1243-1254) e lo stato di costante guerra civile in cui si trovava la Città Eterna, allora dominata da famiglie guelfe, spinsero i romani a richiedere da Bologna i servigi di un podestà, cioè di un magistrato dotato di poteri dittatoriali per ristabilire l'ordine nella città.[17] Rispose all'appello Brancaleone degli Andalò, il cui arrivo a Roma si tradusse in un vero e proprio attacco allo status quo dei baroni romani. Brancaleone assunse le cariche di senatore e capitano del popolo con l'obiettivo di rimuovere i baroni dal potere, riformò la giustizia e le arti per favorire la partecipazione dei caporioni e delle corporazioni artigiane alla cosa pubblica e sottomise il clero alla giurisdizione civile.[18] Allo stesso modo, impose tasse su feudi e pascoli e contese al papa sia la riscossione dei canoni, che era stata appannaggio del comune dalla sua fondazione fino alla pace del 1188, sia la tassa sul sale, che invece era sempre stata privilegio esclusivo del potere pontificio.

Nel 1256 i baroni, capitanati dagli Annibaldi e su istigazione di papa Alessandro IV (1254-1261), costrinsero Brancaleone a lasciare la città ed imposero al suo posto il senatore Emanuele de Magi, che fu tuttavia ucciso nelle rivolte popolari che seguirono. Tuttavia, il podestà bolognese sarebbe presto tornato ad affrontare i suoi avversari e, tornato a capo del comune romano, ordinò la demolizione di circa 140 torri appartenenti a famiglie guelfe, atto che gli valse la scomunica. Il suo mandato, invece, sarebbe probabilmente continuato a lungo se non fosse stato per la sua improvvisa morte nel 1259, dovuta ad una malattia contratta durante una campagna contro Corneto.[19]

Carlo I d'Angiò, senatore (1263-1284)[modifica | modifica wikitesto]

Nel 1263, i boni homines offrirono la carica di senatore al re di Sicilia, Carlo I d'Angiò, il quale, escludendo i brevi senatorati di Enrico I di Castiglia (1267) e di papa Niccolò III Orsini (1278), mantenne la carica fino al 1284. Durante il lungo senatorato di Carlo I, papa Niccolò III (1277-1280), nel 1278 introdusse un cambiamento radicale nel sistema di elezione del senatore del comune con la promulgazione della bolla Fundamenta militantes Ecclesiae, la quale stabiliva che da allora in poi potessero essere eletti come senatori esclusivamente uomini appartenenti a quelle nobili famiglie romane che avevano tradizionalmente occupato la carica; il papa rivendicava così la propria sovranità sulla vita politica della città e concedeva, di conseguenza, maggior peso politico alle famiglie nobiliari di parte papale, riducendo invece quello delle forze popolari.

Tuttavia, il tentativo di riforma portato avanti da Niccolò III non proseguì oltre la sua morte, e nel 1281 Carlo I tornò ad occupare la carica, che rimase nelle sue mani fino al 1284, quando una rivolta di nobili filopapali pose fine al suo mandato e lo sostituì con il senatore Pandolfo Savelli e con il capitano del popolo Giovanni di Cencio Malabranca.

Sotto il pontificato di Niccolò IV (1288-1292), il comune romano impose a Viterbo, dopo averla sottomessa, un pesante tributo e, fino all'elezione a senatore di papa Bonifacio VIII (1294-1303), che rispolverò la bolla di Niccolò III, la carica di senatore del Comune rimase vacante.

Alternanza tra baroni e popolari (1305-1347)[modifica | modifica wikitesto]

Con il trasferimento della sede pontificia ad Avignone da parte di Clemente V (1305-1314), Roma sprofondò nuovamente in lotte di potere tra baroni e popolari, fino all'arrivo dei forestieri Giovanni da Ignano e Paganino della Torre, che divennero nel 1305 rispettivamente senatore e capitano del popolo, con l'obiettivo di ristabilire l'ordine.

Cinque anni dopo, papa Clemente V acconsentì all'abrogazione dei Fundamenta di Niccolò III e all'elezione a senatore di Ludovico di Savoia, che si dedicò senza successo a porre fine al conflitto tra le famiglie Orsini e Colonna, che dal 1312 avevano ricominciato a contendersi il potere in città. Al brevissimo mandato Jacopo Arlotti degli Stefaneschi come capitano del popolo, percepito come un mandato punitivo contro le grandi famiglie coinvolte nei disordini, sarebbe seguita, nel 1313, la nomina papale a senatore Roberto d'Angiò.

Le fonti riguardanti questo periodo sono scarse, ma una delle ultime notizie che si hanno dalla movimentata vita politica romana prima dell'ascesa al potere di Cola di Rienzo riguarda l'atipica incoronazione di Ludovico il Bavaro a imperatore. Nel 1328 il popolo romano, rappresentato dal capitano del popolo Sciarra Colonna e da altri notabili personaggi antipapali, concesse la corona al sovrano germanico, atto fino ad allora riservato esclusivamente al vescovo di Roma, dando così inizio a un nuovo scontro con la curia pontificia. La successiva nomina imperiale di Castruccio Castracani degli Antelminelli a senatore e l'elezione dell'antipapa Niccolò V (1328-1330) portarono al colmo la pazienza di Giovanni XXII (1316-1334), che non esitò a scomunicare l'imperatore e a lanciare l'interdetto su Roma. Al comando di un contingente militare, Stefano Colonna, del partito filopapale, rase al suolo la parte meridionale della città e cacciò definitivamente l'imperatore e l'antipapa, per poi essere nominato nel 1338 capitano del popolo e messo a capo di un governo popolare composto da tredici capi delle arti, dai priori e da un gonfaloniere di giustizia.

La Roma di Cola di Rienzo (1347-1354)[modifica | modifica wikitesto]

Nuovamente immersa in divisioni interne di natura aristocratica, la Roma del 1347 assistette all'ascesa di un personaggio intenzionato a porre fine all'egemonia baronale sul Comune una volta per tutte: Cola di Rienzo.[20][21] La sua figura, benché per molti aspetti ancora immersa nell'ombra, è una delle più note della storiografia medievalista italiana grazie alla Cronica dell'Anonimo Romano,[22][23] che narra alcuni degli eventi politici avvenuti nella Città Eterna tra il 1325 e il 1357 .

Cola (diminutivo di Nicola), nato a Roma intorno al 1313 in una famiglia povera, apparteneva all'arte dei notai ed era sposato con la figlia di un notabile degli stessi. La sua grande arguzia ed eloquenza, sommata alla vasta cultura accumulata dalle letture di Livio, Virgilio, Dante e Petrarca, gli valsero presto un importante posto tra i magistrati della città, il cui governo era affidato, dal 1338, al popolare Stefano Colonna. In occasione della morte di papa Benedetto XII (1334-1342), Cola organizzò un'ambasciata parallela a quella ufficiale, guidata da Stefano, con lo scopo di ottenere dal nuovo pontefice, Clemente VI (1342-1352), la proclamazione di un anno giubilare. Grazie alla sua amicizia con Petrarca e le sue connessioni con il cardinale Colonna nella sede avignonese, Cola fu nominato notaio della camera apostolica e tornò a Roma nel 1344 per attaccare il malgoverno dei tredici priori dal suo seggio nel assectamentum comunale, attirando il favore del popolo con le proprie arringhe. A partire dalla scoperta nel 1347 della lex de imperio Vespasiani su una lapide bronzea in San Giovanni in Laterano, Cola di Rienzo rivendicò per Roma i poteri che gli appartenevano de iure, affascinato dall'idea di restaurare la grandezza dell'Impero Romano.[24]

Note[modifica | modifica wikitesto]

  1. ^ Brezzi, P. (1947): Roma e l'impero medioevale (774-1252), Bolonia, Licinio Cappelli, p. 382.
  2. ^ Renouard, Y. (1969): Les ville d´Italie de la fin du X siécle au debut du XIV siécle, vol. 1, París, SEDES.
  3. ^ Brezzi, P. (1947): Ibíd., p. 318-320; Gatto, L. (1999): Storia di Roma nel medioevo, Roma, New & Compton, pp. 334-335.
  4. ^ Maire Vigueur, J. C. (2010): "Il comune romano" en Roma medievale, Roma, Laterza, pp. 118-121; Maire Vigueur, J. C. (2011): L'altra Roma. Una storia dei romani all'epoca dei comuni (secoli XII-XIV), Roma, Einaudi, pp. 149-157 y pp. 260-261.
  5. ^ Carocci, S. (2001): Il nepotismo nel medioevo, Roma, Viella, p. 50.
  6. ^ Docs. 41, 42 43 y 44 en Bartoloni, F. (1948): Codice diplomatico del Senato Romano, Roma, Istituto Storico Italiano per il Medioevo; Brezzi, P. (1947): Ibíd., pp. 371-374
  7. ^ Brezzi, P. (1947): Ibíd., pp. 379-381
  8. ^ Maire Vigueur, J. C. (2011): Ibíd., pp. 270-271; Maire Vigueur, J. C. (2010): Ibíd., p. 153.
  9. ^ Cfr. Doc. 70 en Bartoloni, F. (1948)
  10. ^ Doc. 75 en Bartoloni, F. (1948); Brezzi, P. (1947): pp. 415-417
  11. ^ Brezzi, P. (1947): p. 418; Gatto, L. (1999): p. 387.
  12. ^ Brezzi, P. (1947): pp. 419-420.
  13. ^ Brezzi, P. (1947): pp. 421-425.
  14. ^ Doc. 99 en Bartoloni, F. (1948).
  15. ^ Brezzi, P. (1947): pp. 443-448; Gatto, L. (1999): pp. 392-394.
  16. ^ Maire Vigueur, J. C. (2011): p. 297.
  17. ^ Duprè Theseider, E. (1952): pp. 13-14; Gatto, L. (1999): pp. 399-402.
  18. ^ Duprè Theseider, E. (1952): pp. 13-21 y pp. 26-30; Gatto, L. (1999): pp. 402-403 y p. 405
  19. ^ Duprè Theseider, E. (1952): pp. 31-40 y pp. 43-57; Gatto, L. (1999): pp. 408-410.
  20. ^ Tommaso Di Carpegna Falconieri, Cola di Rienzo, Roma, Salerno Editrice, 2002.
  21. ^ Eugenio Dupré Theseider, Cola di Rienzo, in I papi di Avignone e la questione romana, Florencia, Felice de Monnier, 1939, p. 87-101.
  22. ^ Gustav Seibt, Anonimo Romano. Scrivere la storia alle soglie del Rinascimento, Roma, Viella, 1992.
  23. ^ Massimo Miglio, Scritture, Scrittori e Storia. I - Per la storia del Trecento a Roma, Roma, Vecchiarelli Editore, 1991.
  24. ^ Gatto, L. (1999): pp. 453-456.